teatro contemporaneo e di narrazione

Sentivo il bisogno di raccontare delle storie, vere o di fantasia. Storie contagiose, curiose, semplici, dirette. Racconti inediti che potessero fornire occasioni di riflessione.

Un teatro animato, corposo, contemporaneo che potesse spaziare nei temi e nei linguaggi più diversi. Mi sono immerso in un teatro quasi terapeutico dal quale oggi faccio fatica a farne a meno.

Dove è possibile fare teatro contemporaneo?

In salotto, a casa, in terrazzo, in giardino, sulla metro, sul tram, sugli autobus, sul marciapiedi, alla fermata del bus, nei cortili dei palazzi, nei condomini, sulle scale, nei pianerottoli, nelle scuole, nelle librerie, nelle biblioteche, sui treni, al parco, nelle botteghe, nelle carceri, negli ospedali, nelle case di cura, in farmacia, in chiesa, all’oratorio, nell’orto, sugli alberi, negli uffici, in bicicletta, in macchina…..

Poi anche a teatro o nei locali. Ovunque ci sia umanità !

…anzi se vi viene in mente qualche altro posto curioso…

UN MINUTO DI SILENZIO

Ho cercato di misurare il tempo ed alla fine ci sono riuscito, ma per poco.
Ho misurato 60 secondi.
Il silenzio…che cos’è il silenzio.
Ho cercato di misurare il tempo ed alla fine ci sono riuscito, ma per poco.
Ho misurato 60 secondi.
Il silenzio…che cos’è il silenzio.
Sul vocabolario incredibilmente non c’è più.
Si trova SILENZIATORE, SILENZIOSO, SILENZIATO, SILENZIO ASSENSO, ma non si trova silenzio.
Si trova come conseguenza silenzio = assenza di rumore….
Sbalorditivo.
Il silenzio credo sia anche altro.
Si dice che il Silenzio è prezioso, d’oro.
Il silenzio è saggezza, è risposta, è mitezza, è meditazione, preghiera, condivisione, pace, partecipazione.
Il silenzio, anche nella musica trova il suo spazio nello spartito, è una pausa, una sottolineatura, un’anticipazione a delle note particolari che fra poco torneranno.
Il silenzio è ricordo, è memoria, è vergogna, è ascolto.
Il silenzio è gioia ed allo stesso tempo compagnia.
Il silenzio è solitudine.
Il silenzio ci manca un po’ in questi anni pieni di rumore.
Il silenzio non è solo stare zitti, come ci insegnavano a scuola.
Il silenzio si spiega meglio a praticarlo che a raccontarlo.
Il silenzio è un esercizio, che dovremo imparare a fare, più spesso.
Il silenzio è un comportamento garbato.
Il silenzio è un bel signore con la barba bianca curata.
Ecco ora vi annuncio il monologo più bello.
Il titolo è “ UN MINUTO DI SILENZIO”

UNA CANNA DA PESCA

( monologo di Antonio Albanese da me liberamente adattato )

Questa è la storia di un uomo affranto dal potere, dagli impegni, dalle responsabilità.
Pensavo a quanti anni sono che non vado più a pescare…
Pensavo a quanti anni sono che non vado più a pescare…
Mi piaceva così tanto andare a pescare, non sono più andato…

Magari avevo delle cose più importanti da fare anche se in questo momento non saprei dire quali.

Abbiamo sempre delle cose più importanti da fare che non ci fanno stare bene, come se stare bene non fosse ABBASTANZA IMPORTANTE.Io quando andavo a pescare per l’eccitazione mi svegliavo prima della sveglia anzi ero io che svegliavo la sveglia…SVEGLIA!!!

E sei lì che peschi e sei solo….sarai tutto tuo non pensi più a niente, non pensi al mutuo da pagare, non pensi alla guerra in corso…non pensi al mutuo da pagare per mantenere la guerra in corso.. senti una voce gentile, una voce garbata una voce che abbiamo sentito tutti almeno una volta nella vita, una voce di dentro, una voce che ti dice… uè….uè,..,,eiii..…COME SEI FORTUNATO!

Come sono fortunato!!!
Per me pescare è un lavaggio…l’acqua del fiume se la lasci lavorare ti lava via tutti i tuoi pensieri, ti sistema tutto talvolta. ..e allora ho pensato, a tutta la gente…paralizzata dal potere…diamogli una canna da pesca, diamogli la possibilità di stare con se stessi, aiutiamoli a dimenticare di essere indispensabili…gli
farà bene. Ci farà bene……puo’ sembrare una cosa piccola e banale però è un ritorno alle cose semplici, a quei fondamentali che stiamo perdendo.
Pescare mi dava la grande occasione di sentire quella voce garbata, quella voce gentile che ti dice….
Ohhh….COME SEI FORTUNATO!

Come siamo fortunati!!
Però io ogni volta che sento quella voce un po’ mi vergogno e quasi mio imbarazzo…
Allora ho pensato…dobbiamo essere messi proprio male, se ci vergogniamo di star bene…
Forse è per questo che sono affranto, forse è per questo che non vado più a pescare, perché mi fa
paura sapere che volendo…VOLENDO…posso stare bene!!

COME SAREMO NEL 2030

Che bello il mio casco!
Fra poco avremo tutti un casco in testa per tutto il giorno.
Certo!
Si perché nel casco potremo finalmente essere isolati e fare ognuno la propria vita, in piena privacy.
Potremo telefonare, potremo fare anche più telefonate insieme.
Il casco ci permetterà di collegarsi ad internet e quindi di chattare, navigare, ecc

Con il casco potremo ascoltare la musica preferita a tutto volume.
Potremo registrare note vocali, comunicare via blutoth con chi vogliamo.
Il casco si accenderà quando vorremmo.

Il casco avrà una visiera dove potremo vedere film, giochi.
La sera potremo indossare tutti, in famiglia, un bel casco; finalmente ognuno guarderà quello che gli piace, senza litigare.
Il babbo le partite, la mamma la fiction ed i figli faranno giochi con il joytic o vedranno cartoni dei simpson…

In ospedale i pazienti potranno avere un casco per passare meglio le giornate…certo…Più tecnologia meno dottori!!!
Anche nelle case di riposo…. nelle scuole i nostri ragazzi impareranno attraverso questa interattività totale…fantastico..

Gli studenti sciopereranno per avere un casco…si certo…Più caschi per tutti!!!
Per Natale potremo regalare un casco ai nonni, uno celeste a nonno luigi ed uno rosa a nonna Maria.
Lo programmeremo il lunedi fino alla domenica ed anche loro non litigheranno più.
Anche i nipoti così potranno andarli a trovare un po’ meno per dedicarsi ad altro, più ”importante”.

Il casco sarà vietato per andare in moto, in bici, in auto perché chiaramente è pericoloso distrarsi con un video…giusto no?
I russi avranno un casco di coccodrillo, gli arabi d’oro, i cinesi di cartone “spesso”, non avremo più ombrelli e andremo meno spesso dal barbiere.
Che bello questo casco, certo la tecnologia aiuta davvero.
Al mare potremo tuffarci direttamente sott’acqua, e se cadremo a piedi in montagna saremo più sicuri.

Oddio….cosa mi viene in mente….non ci potremo più grattare la testa, forse nemmeno gli orecchi…..questo è un problema….

Un bacio? Si un bacio…..come faremo a darci un bacio….
Una ca-re-zza!! Una carezza!! Come faremo a darci una carezza!
Oddio noooooo (si toglie il casco)!!! Che incubo!!!!!
Come potremo vivere senza una carezza, senza un bacio!
No, per me è troppo importante! Non voglio vivere con il casco. Me ne frego di tutto il resto!!!

Se proprio avro’ voglia di mettermi qualcosa in testa…………. mettero’ il mio solito cappello!!

SOGNO IN DUE TEMPI

( monologo di Giorgio Gaber da me liberamente adattato )

Non si capisce perché quasi sempre i sogni, proprio nel momento in cui, come specchi fedeli dell’anima, stanno per svelare al soggetto i suoi intendimenti nascosti, si interrompono.

Ero lì, in una specie di zattera, un naufragio chi lo sa, insomma sono lì su un relitto di un metro per un metro e mezzo circa, e stranamente tranquillo in mezzo all’oceano, galleggio.
Cosa vorrà dire? Va bè, vedremo poi. A dir la verità avevo già sognato di essere su una zattera con una dozzina di donne stupende… nude. Ma lì il significato mi sembra chiaro.

Ora sono qui da solo, ho il mio giusto spazio vitale, mi sono organizzato bene, il pesce non manca, ho una discreta riserva d’acqua, i servizi, è come averli in camera. Ho anche un grosso bastone, che mi serve da remo.
Non è un sogno angoscioso, ma cosa vorrà dire? Fuga, ritiro, solitudine, probabilmente desiderio di sfuggire la vita esterna che ci preme da ogni parte. Si diventa filosofi, nei sogni.

Oddio, oddio cosa vedo, fine della filosofia. No, non può essere una testa. Forse una boa. Non so per cosa fare il tifo. La boa fa meno compagnia, ma è più rassicurante.
No, no… si muove, si muove. Mi sembra, mi sembra di vedere degli spruzzi. Non è possibile che sia un pesce. E’ qualcosa che annaspa, sprofonda, riappare, lotta disperatamente con le onde.
E’ un uomo, è un uomo, è un uomo, è un uomo, è un uomo è un uomo!
E ora che faccio. La zattera è un monoposto, ne sono sicuro. Per il pesce non ci sarebbe problema, ma la zattera in due non credo che tenga. “Non tieneee” , macché, non mi sente.

Sarà a cento metri. Che faccio? Ma come che faccio, sono sempre stato per la fratellanza, per l’accoglienza per l’ospitalità, eh. Ho lottato tutta la vita per questi principi. Sì, ma non mi ero mai trovato… ma quali principi?  Questa è la fine, qui in due non la scampiamo. E lui avanza verso di me, fende le onde. Sarà a settanta metri, cinquanta, trenta, madonna come fende.

Quasi quasi gli preparo un dentice. E se non gli piace il pesce? Se gli piace solo la carne? Umana. No calma calma, io devo pensare a me, alla mia sopravvivenza: mors tua vita mea. Oddio… non dovrò mica ucciderlo?

Ma no, cosa dico, sto delirando! Lo devo salvare. Poi in qualche modo ci arrangeremo, fraternamente, ci sentiremo vicini. Per forza, non c’è spazio qui, stretti uniti, corpo a corpo…

Guarda come nuota… E’ una bestia! Ma io lo denuncio, ormai sarà già dieci metri. Mi fa dei gesti, mi saluta… mi sorride, lo schifoso. Ma no, poveretto cosa dico, per lui sono la salvezza, la vita eh. Che faccio che faccio? Potrei… potrei prendere il bastone, potrei allungarglielo per aiutarlo a salire… potrei darglielo con violenza sulla testa. Siamo al gran finale del dramma. Il dubbio mi divora, l’interrogativo morale mi corrode, devo decidere. L’uomo è a cinque metri, quattro, tre… Prendo il bastone e…

E a questo punto mi sono svegliato. Maledizione! Non saprò mai se nel mio intimo prevale il senso umanitario dell’accoglienza, o la grande paura della minaccia. Devo saperlo, devo saperlo, non posso restare in questo dubbio morale, devo sapere come finisce questo sogno!

Cerco di riaddormentarmi, mi concentro, voglio dire, mi abbandono. Qualche volta funziona. Ecco sì, sì ce l’ho fatta, l’acqua, l’oceano, le onde…giusto. Un uomo su una zattera…giusto. Un altro che nuota arranca, annaspa disperato, sento il cuore che mi scoppia. Oddio, che succede? Sono io, sono io quello che nuota. No, io ero quell’altro eh, non è giusto, non è giusto, a me piaceva di più stare sulla zattera. Ma quale dubbio morale, ho le idee chiarissime. Sono per l’accoglienza!

Ecco, un ultimo sforzo, la zattera è a cinque metri, quattro, tre… Alzo la testa verso il mio salvatore… eccomi! PUMMM! Dio che botta.
A questo punto, mi sono svegliato di nuovo. Mi basta così eh, non voglio sapere altro. Spero solo che non sia un sogno ricorrente.

Però una cosa l’ho capita. No, non che se uno chiede aiuto gli arriva una legnata sui denti. Questo lo sapevo già. Ho capito quanto sia pieno di insidie, il termine aiutare. C’é così tanta falsa coscienza, se non addirittura esibizione, nel volere a tutti i costi aiutare gli altri, che se per caso mi capitasse, di fare del bene a qualcuno, mi sentirei più pulito se potessi dire: “Non l’ho fatto apposta”.

Forse solo così tra la parola aiutare e la parola vivere, non ci sarebbe più nessuna differenza.

IL MERCANTE DI PAROLE

( monologo di Jean-Claude Carrière  da me liberamente adattato )

Negli stati balcanici, le cui frontiere sono mutevoli, ci si poteva imbattere nel XX secolo in un uomo che andava di città in città, di villaggio in villaggio.Viaggiava anche nei Paesi dell’Asia Centrale, spingendosi fin nel Nord dell’India.

Quest’uomo era un mercante di parole, come lo era stato suo padre. Nel corso dei suoi spostamenti raccoglieva parole qua e là, le pagava quando non poteva fare altrimenti e le proponeva a chi ne aveva bisogno.

Si trattava soprattutto di parole che si applicavano ad animali o ad oggetti sconosciuti. A dei montanari, per esempio, faceva conoscere vocaboli come “marea” e “onda” e spiegava loro i fenomeni che esprimono. A chi si teneva lontano dalla civiltà meccanica portava la parola “automobile”, la parola “aereo” o anche la parola “sottomarino”. In questo caso, per la dimostrazione si serviva di una pozzanghera o di una vasca d’acqua.

Nei paesi torridi parlava di “neve” e dei “ghiacciai”, ma non era facile vendere parole che designavano cose sconosciute. Percio’ in genere si accontentava di parole che si riferivano a cose pratiche, termini legati al mercato e all’industria; senza grande entusiasmo, ma bisognava pur vivere.

Da un viaggio in Portogallo aveva portato la famosa SAUDADE, un sentimento che si prova anche in Brasile: una tristezza che riflette una mancanza, un’assenza, relativa a qualcosa o qualcuno che avevamo e non abbiamo più.

In Spagna, aveva individuato e registrato CURSI, intraducibile in un’altra lingua se non con una spiegazione di una decina di righe, perché questa parola vuol dire sia un po’ fuori moda (ma non troppo), sia un po’ zotica ma con un che di simpatico, con buona volontà, gentilezza, un accenno di KITSCH, appunto, un desiderio di fare bene, di comportarsi bene, di rispettare le convenzioni sociali, le buone maniere, di tenere un contegno corretto. Eccetera. Non si finirebbe più di definire cio’ che la parola CURSI dice in un lampo.

Quando arrivava in questo o quel villaggio, in luoghi dove pochi viaggiatori osavano all’epoca spingersi, la gente del posto andava da lui, spesso in modo discreto, nel cuore della notte, e gli si rivolgeva come ad un confessore.

Le persone gli raccontavano delle cose, nel dettaglio, tentando di descrivere il sentimento che provavano e per il quale non riuscivano a trovare, nella loro lingua, la parola giusta.

Alla base infatti delle sue ricerche quotidiane, c’era una teoria molto seria e segreta, per quanto non formulata, teoria secondo la quale tutti i popoli viventi sulla terra pensano e sentono nella stessa maniera, solo che l’assenza di parole adeguate puo’ impedire, negli uni o negli altri, la manifestazione di questo o quel sentimento.

Ecco quindi che ci crediamo sprovvisti di cio’ a cui non riusciamo a dare un nome.

Nel suo archivio personale riservava un posto speciale alle parole preferite, che non costituivano necessariamente il grosso delle vendite. Riflettendo e confrontando, notava che la parola “ELEGANTE” è la stessa in una decina di lingue e per questo la riteneva una parola azzeccata.

La parola “MALINCONIA” lo induceva alle stesse riflessioni, perché certe parole hanno davvero un successo enorme anche senza un motivo ben preciso.

Si stupiva che la parola “CIOCCOLATO” fosse più o meno la stessa in tutte le lingue e che “FARFALLA” cambiasse invece radicalmente da un paese all’atro, pur conservando sempre una sonorità evocatrice e suggestiva: PAPILLON, BUTTERFLY, MARIPOSA, PARVANEH.

Con sincera tristezza insegnava e vendeva la parola spagnola DESPEDIDA, che indica un “addio per sempre”. Affermava che è impossibile pronunciarla senza che ti si stringa il cuore e ti salgano le lacrime agli occhi.

Nel corso di un viaggio in Iran scopri la parola TAROF, che non fece fatica a vendere in vari paesi dell’Asia centrale. TAROF si usa quando rifiutiamo un’offerta, anche se questa ci farebbe molto piacere.

Per esempio, siamo a cena da amici, non abbiamo l’automobile, è tardi, altri invitati ci propongono gentilmente di accompagnarci a casa e noi diciamo: “no, grazie, davvero, senza complimenti”.

Questo si chiama fare TAROF, un atteggiamento umano comune, una falsa cortesia, forse più diffuso in Iran che altrove.

Con il passare degli anni le sue ambizioni crebbero. Penso’ che con il suo piccolo commercio poteva rendere gli uomini migliori, insegnando loro per esempio, la parola “GIUSTIZIA”, diffusa un po’ ovunque in Europa, o la parola “COMPASSIONE”, che compro’ per una scodella di riso da un buddista affamato che tornava a piedi dal Tibet.

La seconda guerra mondiale rese difficili i suoi spostamenti, ma riprese in pieno l’attività nel 1944-45 guadagnando molto con nuove parole come “RADAR” e “BOMBA ATOMICA”.

Verso i primi anni ’70 notò una graduale diminuzione della curiosità presso i popoli che visitava, come se avessero meno bisogno di parole, in ogni caso di parole nuove, parole venute da altri luoghi.

Notò che la parola PARKING si diffondeva a tutta velocità come SHOPPING e WEEKEND.

Siccome tutte queste parole appartenevano alla lingua inglese, si disse che, così come gli inglesi erano usciti vincitori dalla guerra, anche il loro vocabolario faceva le sue conquiste.

Constatava sbalordito che la maggior parte degli abitanti della terra, invece di dire “sono d’accordo” ciascuno nella propria lingua, si accontentavano di un sommario        ” OK “.

Si invitavano gli amici a bere un DRINK, si indossavano i JEANS, le T-SHIRTS, trangugiavano in tutta fretta al FAST FOOD e via dicendo.

Tutto era al TOP.

Negli anni ottanta vide apparire e diffondersi parole che non erano più di origine inglese e che, sebbene fino ad allora le avesse ignorate, adesso gli sembravano d’un tratto molto minacciose, come JIHAD e FATWA (e che poi sarebbero confluite in un termine ancora più inquietante come ISIS ).

Sentiva che il clima generale del mondo si stava pericolosamente modificando, se ne rendeva conto grazie al suo stesso mestiere.

Doveva infatti arrendersi alla triste evidenza: ogni giorno c’erano parole che sparivano, probabilmente per sempre, aspirate nell’abisso oscuro dell’oblio, che costituisce l’inferno del linguaggio a cui la nostra pigrizia spalanca le porte.

Era finito l’ottimismo magico del XIX secolo e della prima metà del successivo. Le orecchie umane si chiudevano alle parole degli altri.

Banalità universali – bla bla bla e linguaggi stereotipati – avvolgevano di anno in anno il pianeta in una rete di faciloneria, mediocrità e luoghi comuni.

Di conseguenza gli affari del mercante, cominciavano ad “andare a rotoli”, per usare una delle sue espressioni più amate.

Negli anni ’90 tentò di mettersi sul WEB, aprire un SITE, fare BLOG e CHAT, ma in materia di vocabolario ciò non lo portò lontano.

Benchè gli sembrasse inverosimile, l’umanità si accontentava di un vocabolario impoverito.

A volte osava persino immaginare un universo in cui, di notte in notte, certe stelle si sarebbero spente perché nessuno le guardava più.

Il mercante di parole, ultraottantenne all’inizio del 2000, andava di casa in casa, lentamente, tendendo la mano.

Come merce non aveva più niente da proporre a gente che, del resto, non gli chiedeva più niente.

Alla fine non sapeva dire altro che : PLEASE.

Morì da solo, da qualche parte su una strada di montagna e nessuno sa quale fu la sua ultima parola.

P.S.

Vorrei poter cambiare il finale del “mercante di parole” e chiedere a voi, con me, di continuare la sua storia, la nostra storia.

Quella di riconoscere le belle parole, le parole che contano e che arricchiscono davvero il nostro vocabolario.

Per esempio: COMUNITA’, PERDONO, BUON SENSO, DIALOGO, AMICIZIA, COMPASSIONE, MISERICORDIA, RISPETTO, GRATUITA’, VOLONTARIATO, PARRESIA (che vuol dire “dire la verità”, costi quel che costi).

E per voi qual è la parola di questa sera.

Scrivetela sul cartoncino e datela a chi volete.

La mia è GRAZIE!

Citazione: “ la più logora delle parole, prendila per mano” (Roberto Carifi)

LA BELLA STORIA DELLA CARRETTA VUOTA

E’ una bella storia quella della carretta, VUOTA.

Un padre chiede al figlio se sente qualcosa in lontananza. Il figlio risponde di sentire il rumore di una carretta. Il padre gli risponde che è giusta la sua osservazione. Il rumore è quello di una carretta, VUOTA. Il figlio allora chiede al padre come mai secondo lui è proprio vuota. Il padre gli risponde semplicemente che le carrette vuote fanno rumore, quelle piene invece sono silenziose.

Questa storia mi ricorda molto il punto, molto basso, dove siamo oggi, a partire dalla politica italiana. Vuota di tutto, ma nello stesso tempo estremamente rumorosa… nei comunicati, negli annunci, nella voglia di esibizione a tutti i costi, a partire dai video e dai social.

Il buon senso effettivamente è molto silenzioso.

FUORI DALLE SCATOLE !!

( di e con Andrea Massaini )

anche le scatole hanno un anima.

Contengono segreti, aneddoti, storie, oggetti.
L’apertura delle scatole ci farà scoprire cose inaspettate.

Cosa hanno in comune una nocciolina, una zeppa ed un filo di luci per l’albero di Natale?
Forse lo stupore e dopo essere rimasti “di sasso” o a “bocca aperta”, si apprenderà qualcosa, in fretta e per sempre!

Lo stupore potrà trasformare, così, le quotidiane evidenze in conoscenze profonde.
Un primo esperimento di teatro animato dove tutti
saremo coinvolti. Assisteremo alla nascita di un nuovo e curioso linguaggio universale.

e allora…. Fuori dalle scatole !!

VIAGGIO INTORNO ALL'UOMO

Un aneddoto, una storia, una leggenda. Forse è proprio cosi’ che la saggezza degli uomini e delle donne si affi na, si custodisce e si trasmette. Molte storie vengono dimenticate. Le altre continuano a viaggiare attraverso i secoli e la geografi a, perché hanno un segreto da comunicare, perché ci aiutano a capire chi siamo.

non si vede bene che con il cuore

perché l’essenziale è invisibile agli occhi

( il piccolo principe – a. de saint exupéry)